Radici Lariane" è aperto alla partecipazione di tutti ed accoglie testi, racconti e descrizioni di ricordi personali e di tradizioni lariane, fino agli anni ottanta del secolo scorso. Per vedere pubblicato il vostro racconto, (lunghezza massima di un foglio A4, 30 righe in carattere corpo 12) inviatelo a: ventifebbraio@iol.it - Se lo desiderate, il vostro testo potrà essere accompagnato e corredato anche da una vostra immagine.

18.2.12

IL SETIFICIO DI COMO, anni '70 - (Setificio vecchio, Via Carducci 9)

 mariposa (quarta D) - (Milano)


Ci riconoscevano subito. Con quegli enormi fogli da disegno arrotolati sotto il braccio non potevamo che essere studenti del Setificio, che all’inizio degli anni Settanta stava ancora in fondo a via Carducci, al numero nove, di fronte al Liceo classico.
Ovviamente, della sezione D(-isegno) per tessuti.

Quei fogli Fabriano, cotone centopercento, erano il nostro ingombro e vanto.  Quando in classe, all’ultimo piano del sontuoso e affaticato palazzo, con scaloni regali, aule dai soffitti alti e piene di luce naturale, li srotolavamo sui banconi neri e ci seminavamo sopra piccoli e grandi fiori (copiati dal vero), ci sentivamo un poco artisti.


Come al momento di entrare in cartoleria, da Camagni, per comprare boccette e pennelli, taglierini, temperamine e schiaccini... Ecoline, si chiamavano i colori che con l’aiuto dell’acqua noi studenti-bigat (è il baco da seta) scioglievamo in sfumature infinite. Quando comparvero gli “ice”, le tinte fosforescenti di cui si abbeverano gli evidenziatori d’oggi, ci sembrò di aver trovato il segreto per dare luce ai nostri disegni, che già immaginavamo stampati su preziose pezze di seta da trasformare in camicette, foulard, sciarpe…

Con la primavera dai finestroni aperti, insieme al tepore, entravano anche gli sberleffi dei cugini del liceo. A ogni intervallo era sempre peggio, e a volte non senza ragione. Perché in un angolo del piano rialzato, vicino allo scalone, c’era il laboratorio di chimica che esalava lo sgradevole olezzo dell’accadue-esse, l’acido solfidrico: una puzza di uova marce asfissiante, marchio indelebile degli esperimenti di chimica analitica, anticamera dei segreti dei coloranti per la stampa. Ma il primo passo del giovane alchimista-bigat, in rigoroso camice bianco, era soffiare nel vetro per costruire becher e provette. Quante volte abbiamo fatto cilecca! Come nel vicino laboratorio di fisica con i nostri maldestri tentavi di costruire una resistenza o una pila.

L’aula di tessitura, invece, stava al primo piano, appena sopra: la lavagna lunga come la parete e la cattedra, da cui il prof più severo dell’istituto Paolo Carcano ci svelava l’arte di fili e filati, di trame e orditi. Nozioni che mettevamo in pratica nella nostra “fabbrica”, oltre il cortile, proprio di fronte all’ingresso. Qui, a stordirci, non era la puzza, erano i colpi cadenzati e secchi di licci e navette.

Ma era sempre lassù, al secondo piano, lato presidenza, che davamo il meglio, copiando anche quadri d’autore in versione disegni per tessuti: Braque, Fontana, Matisse, Picasso “cadevano” sui nostri fogli Fabriano come pezzi d’antiquariato, in mezzo a un arcobaleno di flaconcini quadrati.
Per noi bigat della sezione D(isegno) fingere d’averne dimenticato uno diventava la scusa ideale per passare l’intervallo fuori, con la complicità dei bidelli che avevano l’ordine di sprangare il portone. Non era però da Camagni che volevamo andare, ma al mercato che ogni martedì,  giovedì e sabato ci teneva compagnia con le sue voci. E i suoi colori. Che nessuno è mai riuscito a chiudere in boccetta.


da MARIPOSA(quarta D) - (Milano)
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14.2.12

MI RICORDO DEL C3

Piero Pizzi - (Lecco)


Quando ammiro il lago dal terrazzo della Canottieri Lecco, secondo me uno dei suoi punti più suggestivi, mi tornano improvvisamente alla memoria tanti ricordi che mi legano a questo posto.





Proprio in questi giorni ricorrono sessantaquattro anni (caspita, così tanti!), dall’impresa di PIETRO VASSENA, putroppo dimenticata.
Era da poco finita la guerra, la miseria e le distruzioni erano tante tuttavia Pietro Vassena s’indebitò per realizzare il suo sogno, un SOMMMERGIBILE tascabile.
Un particolare curioso, il suo laboratorio era in un cortile della centralissima via Cavour, oggi trasformato in un centro commerciale.
Perché lo chiamò  C3 ?
In ricordo della cella n.3 dove fu detenuto subito dopo la liberazione per collaborazionismo con i tedeschi, avendo venduto loro gasogeni funzionanti a legna e carbonella, di sua invenzione, che sostituivano, su tutti gli automezzi, il carburante.
Solo questa particolare realizzazione, assommata a quelle relative alle moto, avrebbero fatto di Vassena, se fosse nato in America, il ricchissimo boss di una multinazionale, a Lecco, invece, rimase sempre per chi conta un “geniaccio stravagante”, ma soprattutto incompreso.


Oggi mi rivedo assiepato con tanta altra gente, sul pontile della darsena della Canottieri, per festeggiarlo mentre rientra dopo un’immersione di cento metri nel centro del lago.
Avevo da poco letto Ventimila leghe sotto i mari di Verne e, quando Vassena comparve sulla piccola torretta, mi parve scorgere il capitano Nemo in persona.


Fu portato in trionfo fino al suo laboratorio e sorrido pensando alla personalità di questo singolare personaggio, festeggiava il successo a braccetto di alcune belle donne ed io, allora giovanissimo sognatore, lo invidiavo proprio per questo!


Ad Argegno portò il C3 alla profondità di oltre 400 metri, quando i sommergibili raggiungevano allora al massimo i 170 metri.
Un’impresa straordinaria! Un coraggio che rasentava l’incoscienza!
Come finì?
La storia in Italia è una facciata imbandierata che sembra nascondere sempre oscure trame.
La Marina militare volle sottoporlo a delle prove e nel novembre del 1948 ad Ischia, durante il rientro in porto, per colpa dello sportellone lasciato aperto, con il mare mosso, affondò.


Da allora giace fra quei fondali, a nascondere un grande sogno ed un prodigio di tecnica.
Ma perché quello sportellone era rimasto aperto con il mare mosso? Volutamente o no?

da  PIERO PIZZI - (Lecco)
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10.2.12

SONO NATO IN UN LABORATORIO DI MAGLIERIA

Daniele Riva - (Paderno d'Adda - Lecco)

Sono nato in un laboratorio di maglieria… No, in realtà sono venuto alla luce di questo mondo in un ospedale di Bergamo, ma è come se fossi nato in quel laboratorio di maglieria dove i miei nonni e mia mamma sgobbavano dalla mattina alla sera - i ruggenti Sessanta finivano e si avviavano sulla china della crisi del petrolio e degli anni di piombo. E io ero lì, in quel laboratorio, nel mio recinto, e mi divertivo con i miei giochi e le coccole della dozzina di operaie che si portavano il cibo da casa e passavano la pausa pranzo nel cucinino, si scaldavano anche qualcosa, sebbene io ricordi in modo vivido gli incarti oleati con la coppa e il salame.


Giocavo con le costruzioni di legno che tutti i bambini di un anno ancora adesso usano, poi con le macchinine, poi sarò anche uscito da quel recinto, una volta appreso a camminare. Comunque, in breve ho imparato i nomi di quelle macchine e le funzioni - e ogni operaia aveva il suo compito come è sempre stato nel mondo industrializzato, nessuna interinale, nessun co.co.co. Contratti seri. E contabilità sempre in ordine: a quella pensava mio papà, che di giorno lavorava in una multinazionale a Milano e la sera, sorbitosi il viaggio in treno, cenava e si metteva a studiare per diventare ragioniere e intanto batteva a macchina le fatture e riempiva i registri con la sua calligrafia ordinata.

Dicevo delle macchine. Cosa serviva? Dunque: la 8 e la 12, che sfornavano i teli per le maglie: le operaie spostavano il telaio da destra a sinistra e viceversa e a ogni passata il telo si allungava impercettibilmente, ma in breve arrivava alla misura voluta - non è così semplice: bisognava anche contare i fili e controllare gli aghi, spesso si rompevano e andavano sostituiti; c’era da oliare gli ingranaggi, c’erano dei pesi da attaccare ai teli; c’erano i coni di lana o cotone da tenere d’occhio. Poi arrivarono dei mastodonti grigi che lavoravano da soli: le Stoll, con un sistema di lettura a schede perforate che consentiva anche disegni jacquard. E naturalmente, come avrete già capito, il numero di operaie diminuì: una ragazza che si sposava o andava in maternità decideva di non lavorare più e dedicarsi alla famiglia e non veniva sostituita. Lo so, è triste, ma è la legge del mercato. Come è triste che i soldi per un’altra macchina da maglieria, la Coppo, tutta elettronica e smalto panna, andarono praticamente perduti perché nel frattempo era intervenuta una crisi di settore e quell’investimento risultò ormai superato. Mi piangeva il cuore quando la portarono via - avrò avuto già vent’anni e l’attività era ormai alla fine.

Ma proseguiamo nella visita: i teli venivano adagiati su lunghi tavoli dove la magliaia o “maestra” li segnava con il gesso bianco e li tagliava con le lunghe forbici. Il compito della magliaia era quello di mia mamma, che aveva già lavorato in gioventù, a 14 anni, mica come adesso! in un altro laboratorio. I teli tagliati passavano alle macchine per cucire, dove diventavano effettivamente maglie e dove veniva aggiunta la maglia rasata delle maniche e del bordo inferiore ed erano rifinite, se c’erano, le asole. Un’altra macchina, circolare, serviva per attaccare i colli; e qui c’era da sbizzarrirsi: a V, a lupetto, a lupo di mare, alla coreana, a girocollo, a barchetta, alla “Serafino” come il pastore di Celentano. Adesso il prodotto era finito: ci si attaccavano i bottoni se era un gilè o una “Serafino” e il capo veniva stirato da un’altra macchina, a vapore. Come mi piacevano quegli sbuffi bianchi.. Qui venivano anche controllati eventuali difetti, se c’erano delle macchie venivano tolte con uno smacchiatore del quale ricordo ancora il nome, il Pludtach. Il prodotto finito veniva imbustato in un sacchetto trasparente con il marchio del maglificio: se l’ordine era di un grossista finiva in uno scatolone o veniva legato in un pacco: quante volte ho accompagnato mio nonno a Milano, a Bergamo, a Monza o a Lecco per consegnarli! Andavamo con la sua Giulia e qualche volta persino in treno. Se invece l’ordine era di un privato, che era venuto nel nostro punto di vendita - un piccolo locale dove c’era anche lo studio in cui mio papà premeva i tasti di una calcolatrice e ne usciva curiosamente un lungo foglio bianco, un serpente di carta ai miei occhi di bambino - allora lo si portava lì in attesa che il cliente lo venisse a ritirare.

Cosa si può dire di allora? Che erano altri tempi, che il lavoro si trovava con estrema facilità, che un lavoro non era mai troppo umile, che ci si accontentava di poco. Che ricordo con molto piacere i rapporti umani che si venivano a creare: ogni anno le operaie venivano portate in gita in qualche località turistica, erano tutte al mio battesimo, invitavano al matrimonio i miei nonni, ancora anni dopo la chiusura del laboratorio ci venivano a trovare… Ce n’è una che incontro talvolta al supermercato e ancora mi saluta e mi chiede come vadano le cose, come stiano tutti… e sono almeno 40 anni che non lavora più.

E poi, poi che cosa è successo? Che i miei nonni sono andati in pensione come artigiani prendendo tra l’altro una miseria - mia nonna si è lamentata di questo fino all’ultimo giorno dei suoi 94 anni - e hanno ceduto l’attività per qualche anno a mia madre. Ma i tempi erano cambiati, le difficoltà imprenditoriali erano sempre più alte, cominciava la concorrenza cinese a prezzi più contenuti. Insomma, non ci stavano dentro più, e nel 1986, dopo aver patito per un paio d’anni l’umiliazione dei lavori su commissione per altre aziende, il glorioso maglificio nato nel 1950 e presente più volte al Comis, la fiera milanese di settore, chiuse i battenti. Ma è sempre nella mia memoria e anche nel mio cuore, visto che sto scrivendo dove un tempo c’era il bobinatoio, l’aggeggio che prendeva le matasse di lana e le trasformava in coni o rocche da utilizzare sulle macchine: infatti, con un’operazione a metà tra la nostalgia e il vintage, quasi vent’anni fa ho trasformato il laboratorio nel mio studio: una specie di loft post-industriale dove mi sento davvero a casa…

da DANIELE RIVA - (Paderno d'Adda - Lecco)
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COMO - IL FRUTTIVENDOLO DI VIA MILANO - (IL "BURGH DRIZZ" - ANNI '30)

Emilio Montorfano - (Milano)

In quella Como di tanti anni fa, degli anni ’30 per la precisione, quando la Via Milano era ancora segnata dalle rotaie di sferraglianti tram verdi, ma pochissimo percorsa da automobili,  quella via che, da Porta Torre a San Rocco, incrociava la salitella del ponte sepolto del Cosia, passando oltre la chiesa di San Bartolomeo,  era chiamata “ul Burgh drizz”.

Quella larga via era ricca di negozi e di laboratori di artigiani, che oggi sono purtroppo scomparsi, ma che avevano un fascino particolare per i miei occhi di  bambino.

Percorrendola, magari a mano della mia bella mamma, mi sembrava di conoscere tutti come in una grande famiglia allargata ed era bello sentire le voci della gente e vedere le vetrine.

All’inizio della via, proprio sull’angolo con la piazza della Torre, c’era un cartolaio, che aveva in vetrina ambiti soldatini di gesso colorati, poi, risalendo il borgo, c’era un negozio di fiori e sementi, c’era un chincagliere e un bar, dove era facile che ci scappasse un gelatino o un dolcetto.

Subito dopo c’era un negoziante di stoffe, c’era lo studio fotografico di mio  nonno e il barbiere che, di tanto in tanto, mi tagliava i capelli, raccontandomi storie  fantastiche.

C’erano, poco più in là, un salumiere, che grosso e rubizzo, affettava deliziosi salumi e poi un negozio di panetteria, il cui profumo si sentiva a distanza e nel quale mi veniva regolarmente offerto  un bel grissino gustoso, e un negozio di drogheria con un’attraentissima esposizione di caramelle coloratissime...

Il personaggio che, però, attraeva maggiormente l’attenzione era un fruttivendolo, il quale, tutte le mattine, grande grosso e forte come un toro, percorreva Via Milano, scendendo verso Porta Torre trascinando un grande carretto, colmo di frutta e di verdure e chiamando all’acquisto le donne con voce tonante.



Donn - gridava - ghè chi  ul frütiröö con früta e verdüra fresca.” (*)
E, mentre le donne uscivano di casa per raggiungerlo, continuava:
Gh’è chi i bei magiuster, dulz comè ul méél, gh’è chi l’insalatina ténara, che stamatina l’era ancamò in de l’ort. Gh’è chi i mugnag fresch, i bei péér da maià inscì e da cöos, pomm lüstar per i vòstar fijöö.”

Fermo in mezzo alla via, senza smettere un momento di vantare la bontà della sua merce, pesava frutta e verdura con una stadera, avvolgendo il venduto in carta da giornale.

Questa è un’immagine che ricordo sempre, ogni volta che ritorno su quei marciapiedi, dove tutto è cambiato, sparito come il sorriso dei bottegai, che mi davano un buffetto quando passavo davanti alle loro botteghe. 

da  EMILIO MONTORFANO - (Milano)


n.d.r.:
(*) - "Donne, c'è qui il fruttivendolo, con frutta e verdura fresca"
(**) "Ci sono le fragole, dolci come il miele, c'è l'insalatina tenera che stamattina era ancora nell'orto, ci sono le albicocche fresche, le belle pere dell'orto da mangiare così oppure da cuocere, le mele lucide per i vostri bambini"

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