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28.12.13

Un Natale di tanti anni fa

Eugenia Abbate


Mia madre ha più di ottant'anni ma i ricordi dei Natali del passato, specie quelli della sua infanzia, li ha ancora molto vivi nella memoria. 

Non appena si avvicina la data fatidica, comincia a raccontare episodi di quei Natali poveri ma religiosamente sentiti  e attraverso i suoi racconti le figure dei nonni e dei bisnonni riacquistano nuova vita e sembrano venirci a dire che si poteva essere felici anche allora, con pochissimo, perché ci si accontentava e ci si voleva bene.


In tempo di guerra, la santa Messa natalizia veniva celebrata alle cinque del mattino, in una chiesa gelida  e illuminata dalla sola luce delle candele. 
Alle sei e trenta si faceva ritorno a casa, a piedi ovviamente, non prima di essersi fermati nella piazza principale del paese, quella affacciata sul lago, a riscaldarsi davanti al grande falò fatto con sterpaglie e rami di ginepro, che alcuni volonterosi avevano acceso per salutare l'arrivo del santo Bambinello. 

In casa, grazie al bisnonno Giuseppe, rientrato anzitempo dalla messa, c'era un bel calduccio; il fuoco ardeva nel camino e il crepitio delle fiamme, causato dalle foglie di alloro che bruciavano, era considerato segno di gioia per la nascita di Gesù e di buon augurio per tutti. In quel momento cominciava la festa: Giuseppe offriva ai suoi fratelli Pancrazio e Tommaso, venuti a porgere il buon Natale alla famiglia, la luganeghetta cotta sulla graticola; il sostanzioso spuntino era annaffiato da qualche calice di vino bianco (vino prodotto con la fermentazione delle mele, si sospetta). 
Alle bambine, Laura e Assunta, veniva preparata la cioccolata fatta con cacao autarchico, accompagnata dal famigerato "bulugnén", una specie di panettone comprato dal panettiere, che lo confezionava con ingredienti di fortuna. 
Il nome del dolce era quanto mai indovinato poiché il cosiddetto era duro come un paracarro (bulugnén, in dialetto). Meglio non indagare cosa contenesse. 

I regali a Natale non esistevano, li portavano i re Magi il 6 gennaio e consistevano essenzialmente in un sacchetto di nocciole e fichi secchi e qualche mandarino. 
La mattinata trascorreva tra le chiacchiere degli adulti, le visite di vicini e parenti per il tradizionale scambio di auguri e i giochi delle bambine. 

A mezzogiorno veniva servito il pranzo, preparato dalla nonna Eugenia, con un menu che, data la solenne occasione, era più che rispettabile: risotto giallo - fatto con lo zafferano 3 Cuochi - con la luganeghetta, seguito da un piatto di lesso, in genere biancostato di manzo, e da un arrosto, che poteva essere o un cappone nostrano o un carré di maiale. 
La mamma ricorda che suo nonno Giuseppe amava particolarmente  l'arrosto di maiale. Per lui non era Natale senza "el rost de purcèll".  Come contorno, i "bròcul rustii", ossia i cavolfiori ripassati in padella,  facevano del loro meglio per far dimenticare le privazioni della guerra. 
Il dolce consisteva nell'indigesto e granitico "bulugnén" di cui abbiamo già parlato prima. Come caffè si gustava, per usare un eufemismo, un infuso fatto con le ghiande tostate e macinate. 
Il giorno seguente, santo Stefano, sulla tavola compariva immancabile la polenta, servita con gli avanzi del giorno prima. 

La mamma mi racconta sempre un gustoso aneddoto legato a quegli anni difficili: durante la stagione fredda, la maggioranza delle famiglie del piccolo borgo, per potersi garantire qualche entrata proteica soprattutto in vista del Nataleusava allevare del pollame o qualche coniglio. I nostri congiunti non facevano eccezione ed anche il nonno Carlo, il marito di Eugenia, allestiva nella cantina di casa "la capunéra", ossia predisponeva alcune gabbie dove mettere all'ingrasso quei tre o quattro capponi sufficienti ad allietare la tavola durante le festività
Caso vuole che una notte, mentre la casa era immersa nel buio e i suoi abitanti dormivano, alcuni malintenzionati cercarono di entrare in cantina per sottrarre quel prezioso bottino. La nonna, che aveva il sesto senso sempre all'erta, si accorse di qualcosa, forse sentì dei rumori sospetti, e svegliò bruscamente il marito: "Carlo, alzati! Ci sono i ladri che vogliono rubare i capponi!". Il nonno, ancora  insonnolito e forse pensando alla giovane moglie e alle piccole figlie che riposavano placide nei lettini, anziché affrontare faccia a faccia i banditi e magari prenderli a legnate, preferì spalancare la grande finestra della camera, protetta da una spessa inferriata, e urlare a squarciagola: "Aiuto, aiuto!!! Al ladro, al ladro!!!". I furfanti, che come coraggio facevano il paio con il nonno, se la diedero a gambe e i capponi furono salvi. 
La nonna, che non mancava di senso dell'umorismo, prese in giro a vita il  suo Carlo, per quella prova di audacia così scarsa.

da Eugenia Abbate - (Milano)
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